Amico Libro – Articolo di Piero Ferrero sull’importanza dell’ascolto

L’associazione di volontariato culturale “Amico Libro” propone una nuova “pagina di lettura”: un articolo del professore Piero Ferrero che ci invita a scoprire l’importanza non solo del saper parlare, ma anche dell’ascoltare.

Piero Ferrero è nato a Torino nel 1939. Conseguita la specializzazione in Psicoterapia a Milano nel 1969, ha svolto la sua attività nella città di origine.  Prendersi cura della persona sofferente per lui ha assunto il significato di farsi carico non soltanto del suo essere, ma anche del mondo famigliare e sociale che le è intorno. Ha esteso in pubblicazioni il pensiero derivatogli dall’esperienza clinica e dalla teorizzazione relativa al funzionamento della mente umana e al comportamento nella vita quotidiana.
Oggi vive ed opera in Trentino – Alto Adige.

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L’ASCOLTO
 
Come c’è un’arte di raccontare così c’è pure un’arte dell’ascoltare altrettanto antica e nobile, a cui tuttavia, che io sappia, non è stata mai data norma.
 
Eppure, ogni narratore sa per esperienza che ad ogni narrazione l’ascoltatore apporta un contributo decisivo: un pubblico distratto od ostile snerva qualsiasi conferenza o lezione, un pubblico amico la conforta; ma anche l’ascoltatore singolo porta una quota di responsabilità per quell’opera d’arte che è ogni narrazione.
Se ne accorge bene chi racconta al telefono, e si raggela, perché gli mancano le reazioni visibili dell’ascoltatore, che in questo caso è ridotto a manifestare il suo eventuale interesse con qualche monosillabo o grugnito saltuario.
E’ anche questa la ragione principale per cui gli scrittori, ossia coloro che raccontano ad un pubblico incorporeo, sono pochi.”

Primo Levi, La chiave a stella, -La Stampa editore, Torino, 2005
 
L’ascolto
 
Sulla disponibilità e sulla capacità di ascoltare si è fatto molto facile moralismo, stigmatizzando chi non sa ascoltare l’altro, come persona egoista, poco sensibile, propensa al pregiudizio. Questo può essere vero, ma perché la nostra valutazione possa essere serena e sufficientemente sicura è bene analizzare con attenzione la complessità di questo aspetto così importante della vita personale e interpersonale.
 
Intanto è opportuno comprendere che esistono molti modi diversi di ascolto. Mi vien da dire che l’ascolto per eccellenza è quello che si realizza nel silenzio.
 
A questo proposito, ricordo un grande maestro del canto e della musica insegnati ai bambini, Roberto Goitre, che abbiamo avuto la fortuna di avere per tanti anni a Torino. Per iniziare i suoi corsi rivolti ai piccoli allievi a volte di soli quattro anni, li radunava in una sala ben insonorizzata, bendava loro gli occhi e faceva poi cadere quattro o cinque foulards di seta al centro della stanza, in momenti diversi. I bambini erano chiamati a dire quando ognuno dei foulards cadeva a terra.
 
Megafoni, casse acustiche, amplificatori da stadio, ingorghi di traffico ci hanno disabituati e ci stanno disabituando ad ascoltare i suoni più lievi, quelle sfumature che fanno talora la melodia, l’ultima, quasi impercettibile nota, che emana dal violino quando la punta dell’archetto appena lo sfiora.
 
L’orecchio della mente non è costruito per raccogliere grida, voci stridule, rimproveri rabbiosi, urla. E’ un orecchio che ben più sa apprezzare toni di voce pacati, fermi, sicuri certamente, ma non per questo freddi, sincopati o accelerati. Ha bisogno di ascoltare una voce forte, ma calda, calma, non invasiva.
 
Se vengono rispettate queste condizioni, la mente allora si fa capace di ascoltare anche l’inascoltabile, il gestuale, il movimento dell’anima: modi di comunicare che talora esprimono più che la parola stessa.
 
Ancor più occorre che siano presenti le condizioni per potersi far ascoltare e per poter ascoltare: all’interno di chi chiede (o sembra chiedere) di essere ascoltato, così come all’interno di chi ascolta (o sembra ascoltare).
 
Comunicare e ascoltare significa trasferire, travasare da un contenitore a un altro contenitore, parole, nozioni, emozioni, sentimenti. Così come avviene fra due vasi comunicanti. E perché un vaso possa travasare in un altro, occorre che l’uno sia pieno, ma non troppo pieno, altrimenti tracima, ma non travasa. E perché l’altro possa ricevere, occorre che ci sia sufficiente spazio libero al proprio interno per potersi fare contenente.
 
Mi è capitato tante, tante volte che mi fosse richiesto di ascoltare l’ansia, la paura, se non l’angoscia. Chi me lo chiedeva era sicuramente sincero, ma mi accorgevo, via via che l’incontro procedeva, come in realtà questa persona, pur sofferente, non avesse davvero bisogno di essere ascoltata, ma volesse soltanto poter tracimare, potersi liberare di quel troppo pieno che la stava soffocando, anziché comunicare realmente,  per  farsi  ascoltare  e  per  poter  a  sua  volta  ascoltare. Situazione questa che porta a una sorta di tristezza, di amarezza, perché generatrice di quella non bella sensazione che è il sentirsi insufficienti, se non addirittura inutili.
 
Così ho appreso, ben più dall’esperienza clinica che non dal molto studiato, che l’ascolto talora è non vero ascoltare, bensì più semplicemente assorbire, prosciugare, senza poter seminare nulla. E’ trovarsi davanti a una persona che chiede di essere presenza inanimata, silente, di ricevere liquame, ma di non lasciare traccia alcuna di sé in chi ha di fronte. Mi accorgo, riflettendo in questo modo, quanto il nostro vocabolario semantico sia povero. Questo non è più ascoltare nell’accezione che normalmente si dà a tale termine, ma avrei difficoltà a trovare un’altra parola più adatta a descriverlo.
 
Naturalmente non sempre avviene così. A volte e per lo più, il bisogno di essere ascoltato è proprio bisogno di essere accolto, di essere messo dentro. Si chiede all’altro di farsi contenitore, non necessariamente parlante e soprattutto non giudicante.
 
Il giudizio, nella gran parte dei casi, è semplicemente una scorciatoia dell’ascolto, quasi a chiudere, a siglare, per non approfondire oltre.
 
Non è raro che, alla fine dell’incontro, chi ha chiesto l’ascolto si senta più lieve, meno gravato, tanto da sorprendersi nel constatare che le difficoltà, oggettivamente immutate, appaiano ora meno complesse e forse anche risolvibili.
 
Ascoltare
 
Dicevo prima che il contenente, per poter ricevere, non può essere colmo. Sembra fin troppo ovvio: ovvio per la fisica, ma non altrettanto per gli stati dell’animo. Perché non ci sia questo pieno e sia riservato uno spazio sufficientemente libero, vuoto, occorre poter reggere la presenza in sé di questo vuoto. Ma ogni vuoto, si sa, genera ansia, stato con il quale non sempre siamo in grado di convivere.
 
Lo psicoterapeuta, più di chiunque altro, corre il rischio di creare entro di sé un vuoto professionale, dovuto, ma ahimè apparente. Gli studi universitari, i trattati di Psicologia e di Psichiatria insegnano che, per poter ascoltare, occorre fare questo vuoto; ma non possono insegnare a sostenerlo, soprattutto se prolungato a lungo negli anni.
 
“E se l’altro cerca di riempirmi di qualcosa che io non conosco, non capisco, non posso far mio?”
 
Ecco allora che ascolto, credo di mettere realmente l’altro dentro di me, ma in effetti ho già la risposta data, una sorta di contenente preconfezionato che mi ripara dalla mia ansia.
 
Per chi non fa del proprio mestiere l’ascolto, questo inganno è meno possibile, più trasparente. Non deve ascoltare: può decidere di farlo, oppure no. Un genitore non deve ascoltare un figlio, un coniuge non deve ascoltare il proprio partner. Se ascolta, lo fa perché ama e basta. Qui la trasparenza è maggiore, meno garantita, ma più sicura.
 
“Se mi ascolti, se mi puoi ascoltare, allora mi ami.” Dunque la soglia del narcisismo è stata sufficientemente oltrepassata: posso ascoltare te, perché non ho così tanto bisogno di ascoltare soltanto me. Posso ascoltare te, perché posso sentire il fruscio di quel foulard che cade, mettendo a silenzio i conflitti, se non le angosce, che fanno frastuono dentro di me. Allora è importante che per ascoltare te, prima abbia ben appreso ad ascoltare me. Ama il prossimo tuo, come te stesso. (Piero Ferrero, La verità nascosta, Ed. Erickson, 2017, pag. 55)
 
Ascoltare me non è egoismo, non è più oggetto di condanna, ma, a ben vedere, è salvaguardia per l’altro. Posso ascoltare te, perché ho sufficientemente appreso ad ascoltare me stesso, le mie fragilità, le mie paure e dunque sono in grado di mettere te dentro di me, perché conosco i confini del mio contenente.
 
Sono in tal modo giunto al convincimento, a differenza di quanto io stesso ho ritenuto per tanto tempo, che l’ascoltare non sia esito di una relazione a due, bensì di una relazione a tre: io, me e l’altro. Può sembrare cosa da poco, ma non lo è.
 
Perché quando mi avvio a un incontro con una persona amica, a una seduta con un mio paziente, a un tempo da trascorrere con un famigliare, mi è diventato abituale dedicare un tempo, più o meno prolungato in relazione all’importanza dell’evento, al mio  stato d’essere, ad ascoltare prima me in quel frangente. Come sto, quanto spazio libero c’è in questo momento dentro di me, quale distanza ho bisogno di stabilire fra me e l’altro per poterlo davvero ascoltare, senza sentirmene invaso, né essere costretto a chiudere l’orecchio al suo parlare e ancor più al suo flusso emotivo?
 
In questo modo l’incontro, la seduta, il momento insieme sono protetti, avvolti in una dimora in cui ascoltarsi, sentirsi, diventa più facile, più produttivo e forse anche più bello.
 
Come quando, in una serata d’inverno, mentre freddo e vento ci circondano, prepariamo per l’amico che sta per arrivare una bevanda calda e un caminetto acceso.
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